Terra!

di Massimo Siragusa e Grazia Puglisi

Sono arrivato che era già quasi notte, dopo avere guidato per ore. Ero stanco, e sono salito nella mia vecchia stanza che ora era colma di libri e di dischi buttati a casaccio. Ho preso una sedia e mi sono seduto fuori il balcone. Da lì potevo vedere uno scorcio della montagna, la parte più vecchia di tutto il giardino ed in fondo, dietro un canneto annerito, il mare e la luna. Erano mesi che stavo male, che dentro il cervello avevo fissa l'idea di tornare. Quest'ultimo anno era stato davvero un anno di merda. A gennaio mi avevano sbattuto fuori dall'impiego che avevo. Così, su due piedi. Una mattina mi ha chiamato il direttore, un vecchio imbecille col sorrisetto stampato sulla faccia flaccida e odiosa, e mi ha detto: "Stiamo attraversando un momento difficile e siamo costretti a riorganizzare il personale. Dal mese prossimo dovremo fare a meno di lei. Mi spiace. Passi in amministrazione per il saldo finale. Buona fortuna". D'accordo, quel lavoro non mi piaceva e ogni singolo giorno che mi alzavo per andare in ufficio mi prendeva una strana apatia, un misto di noia e disperazione. Ma era l'unico modo che avevo trovato per sbarcare il lunario. Quando sono uscito dall'ufficio del direttore mi sentivo come svuotato, senza emozioni. Ho vagato per un po' perdendomi in mezzo alla folla poi, come un automa, sono tornato di corsa verso casa, ho chiuso la porta con due giri di chiave, e sono sprofondato sulla poltrona con lo sguardo perso nel vuoto. Avevo un dolore fisso al centro del petto e mi mancava il fiato, come se non fossi più capace di fare un respiro profondo. E' li, a quel punto che si è insinuato in me il desiderio di riavvolgere il nastro, di tornare indietro nel tempo. Ho messo pochi vestiti dentro una sacca, sono salito in auto e, con il cuore che sembrava scoppiare nel petto, ho imboccato l'autostrada e sono partito.

Ora, varcata la soglia di quella casa, provavo una sensazione strana. Mi vedevo come un estraneo, quasi un intruso e, nello stesso momento, sentivo che mi apparteneva, che era dentro di me. La stanza e i mobili erano rimasti come li ricordavo, ma emanavano una luce diversa. Li vedevo avvolti in una nebbia densa, che mi impediva di definirne con chiarezza i contorni. Ho passato tutta la notte all'aperto, incurante del freddo. Al primo chiarore dell'alba ho scorto mio padre dietro una parete di palme. Aveva una vestaglia marrone indossata sopra il pigiama e delle vecchie ciabatte. Camminava su e giù tra l'ulivo ed il pozzo, con le mani incrociate dietro la schiena e le spalle ricurve in avanti. Il suo volto si era molto scavato e aveva lo sguardo spento, perso nel vuoto. Sono rimasto a lungo a guardarlo, poi ho preso una coperta piena di buchi di tarme, mi sono buttato sul letto e sono sprofondato nel sonno.

La mia camera era la stanza più fredda e ventosa di tutta la casa. Aveva le pareti completamente ricoperte di una stoffa verdastra, con dei gigli ricamati a rilievo. Era arredata con poche cose. Tutti mobili di famiglia di inizio ottocento, di cui mia madre andava fierissima. A me, appena adolescente, davano un'angoscia tremenda. Il ritmo geometrico dei gigli ricamati nella tappezzeria delle pareti era interrotto soltanto da un enorme quadro che pendeva da un gancio. Era il ritratto del mio bisnonno, fiero e arcigno nel suo ruolo di magistrato. In quel quadro stava seduto su una poltrona di pelle e vestito in grande uniforme, con la toga e il cappello. Aveva due occhi neri come la pece e lo sguardo severo. Quegli occhi sembravano vivi. Quegli occhi erano vivi. Mi inseguivano sempre. Non c'era angolo di quella stanza dove potessi trovare rifugio. Non bastava nascondermi sotto il letto o dietro l'armadio. Gli occhi del nonno venivano a cercarmi e mi scovavano in pochi secondi. Che invidia provavo per i miei compagni di scuola, con le loro camerette piene di poster attaccati con un pezzo di scotch, i cuscini buttati per terra e le lampade arancioni a forma di fungo. Adoravo il disordine di quelle stanze, avvolte dagli odori di bucato e di cucina che si mescolavano insieme. Quella stanza, in cui sono stato costretto a vivere fino a quasi vent'anni come fossi in galera, era il mio incubo e la mia ossessione. Eppure c'era una cosa che amavo di quella prigione. Mi piaceva lo spazio esterno, che potevo quasi toccare con mano. Le finestre si aprivano sopra un'enorme vallata. Un territorio immenso che si estendeva a perdita d'occhio, fino ad una lontana catena di monti. C'erano mattine che quella vallata si svegliava coperta di nuvole basse che sembravano ribollire come un mare in tempesta. Quello era il mio regno e li nascevano tutti i miei sogni e tutti i miei desideri.

Avvolto in quella coperta bucata ho dormito per ore inseguito dai sogni. Avrò avuto dieci anni. Eravamo immersi in una notte in cui il vento si era accanito contro gli alberi del nostro giardino. Li scuoteva con forza, disperdeva nell'aria le poche foglie rimaste e costringeva i più piccoli e fragili ad un inchino violento, fino quasi a spezzarli. Uno strano rumore mi è arrivato attutito, sommerso com'ero da coperte e trapunte. Era un suono strano, ripetitivo. Come un grattare. O uno stridio, piuttosto. Non ero certo di quello che stavo sentendo, perché quel suono mi arrivava a singhiozzo. Cominciava lieve, come un sussurro. Poi diventava più forte, rabbioso. Sembravano unghie che aggredivano il legno delle finestre. Lo ferivano e lo squarciavano in molti punti diversi. La porta gemeva e si contorceva, mentre le prime assi cedevano sotto quei colpi. Avevo il cuore che sembrava scoppiare. La bocca secca, senza saliva. Tremavo per il terrore e mi sono rannicchiato sempre di più sotto la mole delle coperte. Poi, con un tonfo, la porta ha ceduto. Il vento è entrato con forza dentro la stanza. Urla, grida, fischi. Volavano oggetti e fogli di carta. Ho sentito dei passi. Si stava avvicinando qualcuno al mio letto. Una mano grossa, pelosa, con le unghie lunghe e ricurve si è intrufolata sotto il lenzuolo. Ha spalancato le dita davanti al mio viso e mi ha afferrato la faccia. Ho Provato ad urlare, ma il suono mi si è spezzato dentro la gola. Mi sono messo a scalciare e a chiudermi a riccio. Proprio quando la mano si è stretta sulle mie guance ho spalancato gli occhi per il terrore e mi sono svegliato. La luce del pomeriggio rischiarava con dolcezza tutta la stanza.

Dovevo avere dormito per l'intera giornata. L'incubo da cui mi ero appena svegliato mi aveva lasciato un'ansia tremenda e ho dovuto aspettare a lungo prima di sentire il mio cuore tornare normale. Ero confuso e, per molto tempo, non sono riuscito a capire dov'ero. Ho vagato un po' per la stanza poi, aperto il balcone, ho lasciato che l'aria fredda della sera mi entrasse dentro i polmoni. Avevo fame d'aria e di cibo. Lentamente, quasi con cautela, ho aperto la porta e mi sono diretto verso le scale. Proprio alla destra dell'ultimo traballante gradino si apre la porta della cucina. E' una stanzetta stretta e lunga, con una vecchia credenza scolorita dall'uso e piena di piatti, un tavolo tondo con le sue sedie e, poggiato in fondo all'acquaio di ceramica bianca, il frigorifero degli anni '50. Accanto ai fuochi, davanti alla finestra che si apre sulla parte interna della terrazza, c'è una lampada di legno verde e marrone. Ha un paralume che un tempo era di un bianco abbagliante, ricamato di pizzo. Tutto era rimasto più o meno come me lo ricordavo, ma era sparito l'odore di pulito di un tempo e ora c'era una specie di patina unta che avvolgeva ogni cosa. Dentro il frigo c'erano solo tre mozzarelle avvolte in una busta di plastica, un litro di latte e una confezione di vecchio prosciutto. Non era il massimo che potessi sperare, ma mi andava bene così.

Villa Diana sorge arroccata su uno spuntone di roccia, proprio sopra la spiaggia di Olmo. Una piccola baia di ciottoli grossi che ogni pomeriggio dell'anno si riempie di spazzatura portata dalla corrente. All'inizio era solo una stalla con un riparo di fortuna attaccato all'esterno e un piccolo deposito per le attrezzature. Poi mio padre ha cominciato ad aggiungere pezzi. Una stanza, un primo piano, una terrazza, altre due stanze. Nel tempo è diventata una costruzione complessa, con vani che spuntano in ogni angolo, tettoie di ferro e lamiera, corridoi, cunicoli, scale. Quella casa è cresciuta in uno sviluppo deforme, con gobbe e braccia spezzate. Su in cima, proprio sopra la porta di ingresso, si apre una finestra arroccata sul tetto spiovente. E' circondata da una specie di ricamo di legno che ha la forma di curiosi fiori a campanula. Col passare del tempo il legno si è scolorito in più punti e ora appare come un profilo strappato che conferisce a quella finestra un aspetto spettrale. L'occhio di un Polifemo semichiuso e cadente.

Da quando sono arrivato passo i giorni a esplorare la casa. Accarezzo le pareti, il legno delle porte e la ruggine del vecchio cancello. L'aria del mare, la pioggia, l'azione del tempo, hanno trasformato l'intonaco che ricopre i muri della facciata. La materia si è sbriciolata e si è deformata in più punti, mentre la calce bianca si è macchiata di una muffa densa, nerastra. Proprio sotto una tettoia di lamiera agganciata sul fianco destro di villa Diana, si apre una piccola porta di ferro, arrugginita e cadente. Porta ad un sottoscala che un tempo serviva da deposito di vecchie cose. Oggetti, quadri, mobili traballanti. Era il luogo proibito della mia infanzia e alle volte passavo intere giornate seduto davanti a quella porta sprangata, a immaginare cosa ci fosse all'interno. Ora me la sono trovata davanti quasi per caso. Ho girato la maniglia arrugginita e la porta si è spalancata dolcemente, senza opporre resistenza. Oltre una ripida scala di legno si è aperta una caverna, umida e fredda, con le pareti fatte di terra e una piccola lampada come sola fonte di luce. C'era qualche mobile abbandonato, due o tre brocche di vetro e un album con delle vecchie fotografie poggiato su di una sedia. Erano foto dei miei genitori ritratti di uomini in uniforme e donne con lo scialle appoggiato sopra le spalle. Persone che non avevo mai visto. Poi, dietro una vetrinetta tutta sbilenca, ho intravisto un oggetto curioso. Un cilindro lungo, avvolto in un pezzo di stoffa. Avevo quasi paura, mentre ho provato a scoprirlo. Nero, lucido, con i bordi cromati. Tra le mani mi sono trovato un telescopio nuovo di zecca. L'ho accarezzato dolcemente. Era bello sentire il contatto con il metallo, provare la morbidezza delle manopole che regolano i movimenti. La messa a fuoco e la luminosità dell'oculare. Quell'oggetto emanava un magnetismo curioso. Era quasi sensuale, direi, come se fosse qualcosa di vivo. L'ho preso con grande attenzione e, afferrato al volo l'album con le fotografie, mi sono precipitato verso l'uscita.

La casa, circondata dall'azzurro del mare, è attaccata al paese per una striscia di terra ed un giardino, pieno di rampicanti, palme, limoni e centinaia di specie diverse di piante accalcate tra loro. A vederlo da fuori sembra un ammasso di verde che toglie il respiro. Le piante, abbandonate al loro destino, sono cresciute a dismisura. Si sono appropriate di un'intera parete che, completamente ricoperta di un'edera mossa dal vento, sembra danzare con un ritmo delicato e monotono. Oltre il cancello di ingresso si apre una piccola strada, che corre verso la casa. E' delimitata da una lunga sequenza di palme. Abitate da intere famiglie di topi che escono appena scesa la sera, quelle piante prendono vita. Mi sono già abituato al fruscio delle foglie che cedono sotto il peso delle bestiole che gli corrono sopra. Ha il sapore di una colonna sonora, quasi una ninna nanna. Mi piace e mi fa compagnia. In fondo, oltre la strada e il cancello, c'è l'Etna.

Sono arrivato da appena sei giorni, eppure mi sembra un tempo infinito, e comincia a farsi strada il dubbio che questo viaggio sia stato un errore. Se avessi un po' di cervello, dovrei prendere la sacca con le poche cose portate con me e darmela a gambe levate. E invece eccomi qua. Con mio padre ci incrociamo di rado. Lo sento mentre si prepara la colazione alle prime luci dell'alba e si siede proprio nel punto più estremo della terrazza, dove nelle giornate di sole e di vento si riesce a vedere oltre il mare, fino alle coste della Calabria. Due mele, qualche fetta di pane, del miele ed un caffè d'orzo. Mangia poco. Lo sguardo dritto sull'orizzonte. Appena sveglio mi lavo, indosso una felpa, e lo raggiungo. Sembra sorpreso dalla mia presenza e mi guarda incuriosito, come se mi fossi materializzato dal nulla. Io scruto ogni suo movimento. Osservo il suo lento masticare e seguo con attenzione il rivolo di saliva che gli cola di lato, lungo il mento. C'è una certa grazia nelle sue mani, mentre spalma di miele le fette di pane, o quando le stringe attorno alla tazza di orzo fumante. Ho un nodo alla gola e non riesco a parlare. Impossibile cercare un rapporto con quel tizio che mi siede di fronte. Lo sento distante, come un estraneo. E come se lo guardassi attraverso un binocolo. O, meglio, attraverso un microscopio. Mi fermo a cogliere le singole parti, i gesti minuti, i più piccoli particolari, ma mi sfugge l'insieme. Non c'è mai stata vita che circolava tra noi, non ce ne sarà nel presente. Resto immobile, non ho la forza di fare nemmeno un piccolo gesto. Mi fermo a guardarlo fino a quando si alza con sofferenza dalla sedia di legno e, con piccoli passi fatti a fatica, ritorna verso la casa per scomparire definitivamente dalla mia vista.

Oggi la giornata sembra trascorrere abbastanza tranquilla. Ho incrociato due o tre volte mio padre mentre vagava per casa. Era vestito con una camicia a quadretti e dei pantaloni di velluto pesante che gli davano un'aria dimessa. Si muoveva con molta lentezza e teneva strette nelle sue mani una pinza e un martello. Forse aveva intenzione di riparare qualcosa ma, nello sfacelo in cui languiva la casa, avrei avuto difficoltà ad individuare un punto da cui cominciare a metterci mano. A metà mattinata lo hanno raggiunto tue tizi anziani che deve avere scovato in paese. Si danno da fare per un po' con un'asse di legno del recinto giù in basso, per poi ritrovarsi seduti davanti ad un bicchiere di vino, al formaggio ed a un pezzo di pane. Li sento bisbigliare e ridere. Sembrano essere degli amiconi. Provo a seguire quel borbottio per un po', ma non riesco a cogliere che poche parole, poi mi giro e torno verso la scala che porta al piano di sopra. La villa è un bazar di mobili e oggetti accatastati uno sull'altro. Scatoli di cartone abbandonati in un angolo, vecchi vestiti stipati dentro gli armadi. E cumuli di teiere d'argento, vassoi, orologi da tavolo. Tutto odora di polvere e muffa. Da quando sono arrivato passo i giorni ad esplorare la casa. Salgo e scendo le scale, cammino in corridoi bui, apro cancelli. Su in cima, nel punto più in alto che sono riuscito a raggiungere, una rampa di scale mi si è parata davanti, come se fosse una montagna che avrei dovuto scalare. La luce che la illuminava era debole, rotta a tratti da ampie zone di buio. Ero affascinato dall'aria che emanava. Non ricordavo dove portava e ho cominciato a salire i gradini uno ad uno, lentamente. Mi è sembrato di avere impiegato un tempo infinito per arrivare ad una piccola porta, colorata di grigio. Bassa e stretta, si apriva su di una grande stanza quadrata. Un letto arrugginito, ma dove ancora era possibile scorgere dei fiori dipinti di giallo, era piazzato sulla parete di fronte. Sul lato destro c'era un piccolo comodino ed uno scrittoio. Dal lato opposto, a sinistra, solo una vecchia poltrona rivestita di un velluto dorato strappato in più punti. Come tutta la casa, anche questa stanza era piena di polvere e puzzava di muffa. Posizionata al centro della parete, una finestra si apriva sull'orizzonte. Il cielo ed il mare sembravano dello stesso colore. In lontananza la sagoma di una nave e, più vicino, la scia di un motoscafo erano gli unici punti biancastri che spiccavano nell'azzurro tenue del pomeriggio. Ho deciso che sarei andato a dormire li sopra. Sono sceso nella mia vecchia stanza, ho preso la sacca coi pochi vestiti che avevo portato con me, il telescopio e l'album di fotografie trovati in cantina, e mi sono rinchiuso dentro la stanza sulla soffitta.

Era uno di quei pomeriggi che amavo di più. Osservavo tutte le sfumature che dal rosa al lilla apparivano in fondo, lì dove il mare finiva. Ricordo che da bimbo il mio pensiero andava alla sponda che sorgeva in quella terra lontana davanti a me, luogo sconosciuto che avrei potuto raggiungere in un ipotetico viaggio per mare o volando nel cielo, dritto fino all'infinito. "Era l'America?" mi chiedevo. Erano sempre "l'America" i luoghi da scoprire e mi sentivo tanto Cristoforo Colombo che urlava "terra terraaa" quando il mio sguardo era puntato sull'orizzonte.

La linea blu del mare, ora appariva netta, e contrastava con il rosa del cielo ma, se la seguivo verso sinistra le sfumature del blu sempre più intenso cominciavano a confondersi con l'indaco, verso destra invece i rosa diventavano spennellate di violetto.

Mentre il sole scendeva alle mie spalle, le acque si placavano sempre più allo stesso modo della mia indole scontrosa che nel corso degli anni aveva dovuto fare i conti con il controllo: a cinquant'anni non si può essere ribelli come a venti, ogni tanto è utile dare l'impressione di essere gente perbene. Anche i miei capelli raccontavano le vicissitudini della mia vita, molti bianchi si erano sostituiti alla folta chioma rossa, ma ne conservavano la robustezza.

Il mare stava diventando un grande specchio d'acqua.

Completamente assorbito dalla bellezza di quel tramonto non sentivo più neanche la dura superficie del sasso su cui ero seduto.

Mi sfiorò un tocco sulla spalla. Trasalii, nonostante la mano leggera, mi voltai di botto verso chi stava interrompendo il mio momento di contemplazione.

-Scusa non volevo spaventarti- mi disse Lea . La mia fronte aggrottata si spianò immediatamente mentre un grande sorriso sostituì l'irritazione di un momento.

Lea faceva parte del gruppo di migliori amici che nel corso degli anni si era formato attorno alla mia vita. A dir la verità era un gruppo molto esiguo, solo tre o quattro persone avevano accesso al mio privato che da sempre avevo custodito gelosamente; solo queste tre o quattro persone, conoscevano alcune delle mie vicende personali e anche il mio punto di osservazione della realtà che si discostava parecchio da quello massificato e orientato dal sistema.

Era sempre bello rivedere Lea, anche se c'eravamo visti il giorno prima.

-Ciao Lea, come hai fatto a trovarmi?

-Intuito femminile- rispose lei con un luminoso sorriso -Che si fa con la roba?-

-Intendi la cassetta dei desideri?

-Si quella! Ma perché "dei desideri"?

-Perché quella cassetta ci permetterà di realizzare i nostri desideri. Tu cosa vorresti che si avveri?

-Lo sai perché ho rischiato così tanto... voglio andare in Buthan, comprare una piccola casetta e vivere felice! Tu invece? Non mi hai ancora detto perché hai organizzato tutto ciò.

-Lea a te posso dirlo ed è una cosa molto importante. Ti sembrerà banale forse, ma per me ha un grande significato. Un luogo antico, scolpito nel mio cuore, ha accolto i miei anni di bimbo... Ci sono tornato una volta, qualche anno fa, vorrei ritornarci e stabilirmi lì- interruppi bruscamente il discorso perché i miei occhi si stavano inumidendo e non volevo che Lea si accorgesse.

Lea mi guardò dolcemente, reclinando leggermente il viso, ma non disse nulla. Furono attimi in cui solo i nostri sguardi parlarono. Il buio che lentamente era sceso ci riportò alla realtà.

-Dai è tardi, dobbiamo tornare- disse lei -Quindi come faremo domani?-

-Ci vediamo alle dieci da me

-Ok, sarò puntuale, e poi?...

-Poi prenderemo la cassetta dei desideri e usciremo

-Usciamo?- rispose lei incredula

-Si! Usciamo -dissi io- Per realizzare i nostri desideri dobbiamo uscire da casa- le sorrisi. Rispondevo con grande serenità al suo sguardo incredulo e un po' preoccupato.

-Tu sei sempre più pazzo!- sorrise lei

"Scendiamo giù per le scale. Presentiamo la cassetta all'ingresso per il controllo. Poi usciamo. Usciamo fuori dal portone".

"Così, semplicemente?"

"Semplicemente, così".

"E poi cosa succede?"

"Niente. Solo il resto delle nostre vite".

"Ed è tutto?"

"è tutto".

"E finisce così?"

"No, veramente. Non è mai così facile. Nessuno se la cava a questo modo".

Ma vale la pena di tentare.

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