La brasiliana

di Lorena Arcidiacono



La minuscola bambina gli dava le spalle, Filippo la guardò: sedeva in riva al mare a gambe incrociate, con il gracile busto dritto come un fuso. La sua pelle fine color cioccolato bruciava al sole cocente e le vertebre sporgendo dalla schiena ossuta e nuda , illuminate dai raggi abbaglianti del mezzogiorno, brillavano come piccole perle rotonde di ossidiana. Un sapiente incrocio di treccine e cristalli colorati, ricamava la sua testolina scura , regalandole la magnificenza di un'acerba regina di Saba, regale, seppur vestita solo da un lacero prendisole giallo limone. Aveva tra le mani un grande cannocchiale nero, trovato chissà dove o rubato a chissà chi, con cui scrutava, imperturbabile, la linea sottile che divide l'oceano dal cielo. Seria, stava lì da un po', stoica, come un capitano di vascello che attende fiducioso che si palesi all'orizzonte una qualche terra fortunata, alla cui riva poter ormeggiare , per donare riposo e ristoro alla sua ciurma stremata dallo scorbuto o come un marinaio di vedetta che scandaglia guardando fisso i flutti, per tema che arrivi un terribile uragano.
Una salita ripidissima di cui non vedeva la fine, e lui costretto a salire, a salire, trascinando su per la via scoscesa un bagaglio pesantissimo, come un moderno Sisifo, costretto da una maledizione divina a trascinare a monte un enorme masso, che tutte le volte inevitabilmente ritornava a rotolare giù per il pendio . Filippo, la notte precedente, si era svegliato madido di sudore, girandosi e rigirandosi tra le lenzuola, e tra il caldo e gli incubi ricorrenti che affollavano l suo sogni sempre inquieti, non era più riuscito a riprendere il sonno. Ma proprio a lui, che era così prevedibile , abitudinario , timoroso del nuovo , era dovuto capitare di trovarsi nel bel mezzo di una repressione poliziesca durissima , che aveva causato l'incendio di buona parte di quelle che chiamano favelas , scatenato sommosse ed un insurrezione di massa di un popolo di emarginati ed intoccabili, che si era estesa anche al centro città! Folla inferocita e bande di ragazzini, chiamati meninos de rua, manovrate da delinquenti e sfruttatori senza scrupoli, che aveva sciamato incontrollata, devastando e depredando i quartieri bene.

Chi glielo aveva fatto fare di accettare di sostituire il suo capo , che all'improvviso aveva preso la varicella, contagiato dalla figlia piccola, in quel viaggio di lavoro in Brasile? Lui, che non si era quasi mai mosso dal suo piccolo paesino dell'entroterra siciliano, se non per andare all'Università prima, e dopo la laurea, al lavoro in un ufficio nel vicino capoluogo - Lo avevano pregato e supplicato di partire, lui, che aveva il terrore degli aerei, era un contratto importantissimo e se non fosse andato, sarebbe sfumato tutto. Era lui, dicevano, che sapeva bene l'inglese e quel progetto lo conosceva a menadito , era quasi per intero opera sua. Da lui dipendeva la sorte di quella piccola impresa di giovani ingegneri. Così , molto malvolentieri ed assalito da una serie di dubbi e paure infinite, era dovuto partire.
Quei ragazzini, quei meninos de rua, come li chiamavano, in fondo non erano così diversi dai carusiddi del suo paesino, e lui lo sapeva bene. i suoi erano contadini, e suo padre per farlo studiare si era tolto il pane di bocca, ma lui lo aveva ripagato da tutti i suoi sacrifici, lo aveva reso orgoglioso, suo padre camminava a testa alta, un piccolo agricoltore con il figlio ingegnere. Si era buttato a capofitto negli studi, dopo un lungo periodo difficile dovuto ad attacchi di ansia e depressione che erano emersi all'improvviso senza un'apparente ragione. Ma forse lui, che non aveva avuto il coraggio di confessare mai nel corso di quei lunghi anni, il trauma e la paura subiti, conosceva l'origine di quel malessere. Quel terribile episodio che aveva segnato la sua prima adolescenza ritornava come un fantasma , popolando le sue notti, all'improvviso. Si sentiva colpevole, eppure non aveva colpa.

Che lui e suo fratello minore Antonio fossero due monelli di strada era già chiaro ad una prima occhiata: calzoncini corti sdruciti e luridi, ginocchia sbucciate e facce bruciate dal sole, scarpe troppo larghe, già consumate dai fratelli e cugini più grandi, riciclate per chi arriva dopo, come consuetudine in tutte le famiglie numerose. Lui, Filippo, Pippo, detto anche 'pilurussu' , per via della capigliatura fulva ereditata dal nonno, ed Antonio suo fratello minore, scorrazzavano sempre assieme ad un gruppo di altri picciottelli, nella sciara poco distante dalla piazza di quell'anonimo paesino dell'entroterra siciliano.
Il caldo torrido di quell'estate ormai avanzata non li scoraggiava dal restare sotto il sole cocente tutto il giorno a giocare con i compagni a cavallina o a quattro cantoni, a tirar calci ad un pallone, a scambiare figurine o a torturare qualche malcapitata lucertola ed eventualmente a fare a botte con tutti per il più futile dei motivi, solo per prendersi la questione. Soltanto al calar della sera, quando il sole ormai morente dipingeva con i suoi raggi il cielo di sfumature violastre, lui e Tonino, sentivano il richiamo di casa e dello stomaco che brontolava. Il profumo di pane condito, di peperoni arrostiti sul fuoco, di minestra e di polpette con il sugo , era il richiamo più potente di qualsiasi piffero magico. Sua nonna materna Maria , in cucina li accolse con un calorosissimo e lapidario: Sgraziati, Unni ata statu? Accussì fitusi! O itivi a lavari, cà u mangiari iè prontu!" E dopo cena, ancora fuori, nel patio di casa ad osservare le stelle, fino a crollare sfiniti, sdraiati su un'amaca fatta di corda intrecciata. L'idea venne a lui, che prima della tragedia era, dei due fratelli, il più temerario ed avventuroso, ma anche, quell'estate, il più irrequieto ed insoddisfatto, per via dell'adolescenza che si apprestava. I soliti giochi da picciriddi non lo accontentavano più, un vento di scontentezza e polemica avvolgeva le sue cervella , ormai si sentiva grande, l'anno successivo, sarebbe andato alle superiori, al liceo. Il suo carattere, prima di quell'episodio terribile era volitivo, ribelle, sfrontato, aveva da ridire su tutto e tutti, tanto da guadagnarsi l'appellativo di ' zita stinchiusa' , affibbiatogli proprio da sua nonna Maria.
"Domani andiamo al castello maledetto" " Chi!!!!, tu sì pazzu, iu non vegnu! Ci vai da solo!" sbraitò suo fratello Tonino . "Mii, sei una pecora! Vabbene allora ci vado da solo! Rispose Filippo. La voglia di pericolo ed avventure era più forte di qualsiasi istinto all'autoconservazione. Il castello maledetto, era in realtà il rudere di un'antica torre normanna, come ce ne sono tante in Sicilia , da cui tutti si tenevano a distanza, perché c'è chi giura, all'imbrunire, di averli visti i fantasmi e sentite le strazianti urla di quei poveri prigionieri, che parecchi secoli addietro, proprio lì erano morti atrocemente torturati. Antonio che senza il fratello non muoveva un passo ed intrigato dal senso di avventura e di pericolo, che attrae ogni ragazzo, patteggiò : " E va bene vengo, ma iu non trasu! T'aspettu fora!. E via furtivi, subito dopo pranzo. Nessuno si accorse della loro assenza, la nonna alluppiata dal caldo tropicale sulla sua sedia a dondolo.
Ed eccola, la vecchia torre ! Si stagliava ancora maestosa e ricca di un lugubre fascino, carica di storia e di leggende antiche, ben nascoste nei suoi vecchi mattoni di tufo. I ragazzi , con il naso all'insù si fermarono, ipnotizzati a guardarla, poi, Filippo. Raccogliendo tutto il suo coraggio, disse con enfasi. "Io vado!". Silenziosamente, Toni annuì, come se il fratello stesse andando al patibolo. Un sentore strano di tragedia lo attraeva e allo stesso tempo gli prendeva le budella, tanto che a malapena tratteneva i conati di vomito. Filippo si arrampicò spedito in cima alla torre diroccata e da lì poteva vedere l'ampia campagna fino al suo paese, "Ca quali fantasmi, tutte frottole per far spaventare noi carusi- urlò affacciandosi da un'apertura-" Tonì , è bellissimo, vieni!" sentendosi già il conquistatore e padrone del castello. Ma la spittizza durò poco, appena abbassato lo sguardo, la vide e tutto il fiato gli si seccò nei polmoni. Stava mollemente adagiata su un mucchio di rovine, con il suo vestito a fiori rossosangue, i capelli biondi che si agitavano nel vento di scirocco, gli occhi aperti, revulsi verso l'alto come nelle immagini delle sante martiri. Vermi bianchi passeggiavano indisturbati sul suo viso di porcellana, accarezzandolo dolcemente, un rivolo di sangue sgorgava, sottile, dalle sue labbra tumide e gonfie.

La bimba ad un tratto cominciò a muovere la testa ed ad annusare l'aria, come un animale della foresta, che abituato ad essere braccato, sviluppa i suoi sesti sensi, presentendo il pericolo. Si voltò indietro, forse percependo lo sguardo di Filippo alle sue spalle, e lo fissò dritto coi suoi grandi occhi marroni, per qualche istante . Ad un tratto, si udirono suoni di canti e schiamazzi, risate e rumore di piedi che battono la sabbia umida, di corse sulla battigia e sciacquio di onde: un' orda di ragazzini mezzi nudi invase la spiaggia, ed alcuni si fermarono accanto alla bimba, cominciando a discutere animatamente. Presto la discussione diventò un litigio con la bimba che urlava, mentre un paio di loro cercavano di strapparle dalle mani il cannocchiale. La bambina difendeva con tutte le sue forze il suo tesoro, ma si vedeva subito che con le sue piccole braccia magre , questa strenue difesa sarebbe durata poco. Filippo balzò di scatto e fu subito da lei. Con tutta la voce che aveva in corpo cominciò a sbraitare minaccioso, sfoderando il suo dialetto siciliano più stretto, come arma di attacco-difesa.
Evidentemente, per qualche misteriosa assonanza siculo brasiliana, o forse la minacciosità della sua invettiva, i ragazzi compresero subito che quella povera bambina aveva un suo eroico paladino e preferirono sciamare altrove. Seguirono dei momenti di silenzio, poi sollevata dallo spavento, la lingua della bimba si sciolse in una parlantina interrotta, in quell'idioma , il portoghese, di cui Filippo conosceva solo qualche parola. La bimba gli porse il suo cannocchiale, invitandolo a guardare il mare. Filippo accettò di stare al suo gioco e si mise a scrutare lontano, mentre la bambina continuava a parlare gesticolando. La sua età era indefinita, fisicamente non dimostrava più di quattro / cinque anni, ma dal modo di muoversi e dall'espressione del viso, le movenze e l'intelligenza delle sue azioni, doveva avere circa sette/ otto anni. Evidentemente sottonutrita, pensò Filippo , ricordando che nello zainetto aveva dei panini, che si era portato per il pranzo, li tirò fuori e ne offerse uno alla bambina.

Filippo fece un passo indietro, si voltò e vide due grandi occhi gialli che lo fissavano, allora cacciò un grido, mentre le sue ginocchia si fecero molli come il gelo di mandorle. Cadde sul terreno pietroso e non riuscì più ad alzarsi, come se una mano invisibile lo schiacciasse giù. Allora urlo forte con tutto il fiato che aveva in gola:" Tonì, Tonì , corri, corri,!" Il piccolo Antonio era sconcertato! Le urla del fratello lo avevano gettato nel più profondo terrore. Cosa era successo? Il fantasma del castello aveva catturato Filippo, ne era sicuro! Doveva salvarlo a tutti i costi Disse a sé stesso che poteva farcela, doveva farcela! Il legame con il fratello era più forte di tutte le sue paure ed improvvisamente si sentì come l'incredibile Hulk, quando diventa tutto verde e muscoloso e gli si strappano tutti i vestiti di dosso! In un attimo fu da Filippo. Un piede gli si era incastrato in una fessura nel terreno e per il panico non era più riuscito a divincolarsi. Appena Filippo si risollevò, con un filo di voce disse: "La morta , la morta, scappiamo ! Tonino non se lo fece ripetere due volte e con il terreno sotto i piedi che scottava come carboni ardenti, filarono via come il vento ed in un batter d'occhio furono a casa. Filippo restò muto ed immobile per giorni, tant'è che la nonna lo voleva portare dal dottore pensando che fosse gravemente malato ed anche Toni non ebbe il coraggio di chiedergli cosa avesse visto. La morta lo andava a trovare nei sogni, chiedendogli aiuto e man mano che passavano i giorni e le settimane, Filippo si chiedeva sempre di più se dovesse riferire ai grandi quella terribile cosa che aveva visto.

La bambina non se lo fece ripetere due volte , afferrò il panino di scatto, divorandolo velocemente, allora Filippo, appena lei lo ebbe finito, le porse anche l'altro, una morsa allo stomaco gli aveva fatto passare la fame. Una voce dietro di loro urlava forte un nome: Thais, Thais! La bambina si voltò. Un ragazzo di circa 14/15 anni veniva verso di loro, molto concitato, ma la bambina sfoderò il migliore dei suoi sorrisi, seguì una conversazione tra di loro, in cui si evinceva il rimprovero del giovane, che le intimava di alzarsi. Poi si rivolse a Filippo, pronunciando qualche frase, alla fine prese la bambina per mano, ed andarono via.

La polizia scientifica attestò che la morta era lei, Madalina , la giovane badante rumena di sua nonna paterna Giovanna, scomparsa da qualche tempo e che tutti pensavano fosse ritornata al suo paese. La trovò il cane di un pastore, qualche settimana dopo, il suo corpo era in avanzato stato di decomposizione. Ma il vestito a fiori rossosangue ed i capelli biondissimi , i sandali rosso fuoco con la zeppa , che si era fatta mandare dalla Romania e che sfoggiava sempre i pomeriggi del sabato , passeggiando per la piazza del paese, quando aveva qualche ora di libertà, erano i suoi, era indiscusso.

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