Irrompe il caso

di Maria Torrisi

Una sottile lama di luce si insinuava tra le doghe della persiana. Giuditta giaceva sul letto sfatto, gli occhi gonfi di lacrime. Sul tappeto una piccola borsa di cuoio, il suo contenuto rovesciato. Poco più in là alcuni abiti. Quando allontanò dalla fronte la lunga ciocca di capelli neri, il suo viso apparve pallido nei suoi lineamenti sottili, mentre il corpo esile scivolò lentamente sul pavimento, senza la molla di alcuna volontà.
Si rivestì distratta, con gli stessi abiti che trovò sul pavimento e ricacciò nella borsetta le chiavi dell'auto. Uscì senza curarsi di dare una mandata alla serratura.
Al cancello di "Villa del silenzio" il custode accennò un tiepido saluto e la fece entrare. L'infermiera invece la bloccò sulle scale. "E' in giardino" annunciò, "venga con me. Oggi sta un po' meglio, ma è sempre molto debole". "Grazie, la seguo", rispose lei spingendo più vicini alla fronte gli occhiali scuri che la proteggevano non tanto dai timidi raggi di una chiara luce di primavera, quanto dall'aggressione degli sguardi che sentiva graffiarle la pelle e gravare sul suo corpo come successivi strati vischiosi di malta, ormai da un giorno lontano e senza tempo.
"Mamma! Mi riconosci?", chiese con labbra strette e dure, sottili come una ferita. "Giuditta", rispose senza esitazione l'anziana donna, magrissima e curva come una mantide, stretta nel suo scialle di lana come l'insetto tra le sue ali ripiegate. "Portami via da qui. Voglio vedere Gino, devo andare da lui". La voce implorante era debole e fioca, mentre le dita ossute, magre come rami secchi, strizzavano un lembo dell'abito a lungo martoriato dal gesto inquieto.
"Si mamma, ti ci porto domani", rispose offrendo un distratto conforto e conducendo la conversazione nel vuoto di un profondo silenzio. Finché una domanda che gorgogliava all'interno della sua coscienza non risalì dalle profondità oscure e nascoste e schioccò nel vuoto come una frustata: "Mamma, dimmi, chi è Gino?". La donna anziana non rispose. Il suo sguardo si era inchiodato in un punto lontano e indefinito, oltre il parco.
"A volte nomina questo Gino", disse l'infermiera che si era allontanata solo di pochi passi dalle due donne. "A volte chiama lei, signora. Dice: Giuditta, Giuditta vieni qua, lascia stare quella bottiglia, non bere quella roba. La pensa, signora. La nomina sempre: le voleva molto bene, vero?".
Non era una domanda reale, ma Giuditta rimase a pensare un po' prima di rispondere. "Si, certo", disse svogliata. In realtà però non era così sicura che quella fosse la sua verità. Non avevano mai combaciato, nella sua mente, l'idea che quello della madre per lei fosse vero amore e la bruciante esperienza di sofferenza che aveva sempre provato per non riuscire a soddisfare le continue richieste di perfezione che le indirizzava lei.
"Puoi fare di più, non ti accontentare di questo risultato", "Lascia stare quei ragazzi, non fanno per te", "Non è così che ti ho educata", "Devi migliorare ancora tanto per essere perfetta". L'elenco dei "No" era sempre molto più lungo di quello dei "Si": la scelta degli studi era stata subordinata al suo pesante vaglio, come quella delle amicizie o dei ragazzi con cui avviare una relazione. Persino il suo matrimonio fu il frutto di un patto con le ambizioni e le aspettative della madre. E ora che lui l'aveva lasciata, sentiva che aveva sbagliato tutto.
"Mi ha cresciuta come una principessa", aggiunse nella risposta all'infermiera. Lo disse come se volesse coprire i suoi pensieri che sentiva ingrati con parole rispettose, o quantomeno convenienti, alla maniera di chi spruzza deodorante in una stanza che odora di muffa. "Non mi ha mai fatto mancare niente. Da bambina avevo una stanza piena di giocattoli, come se per me Babbo Natale fosse arrivato prima ancora che fossi nata io. E poi avevo armadi pieni di abiti, si figuri: già per le età successive alla mia. Mi mandò a frequentare la scuola e l'università migliori della città". Poi tagliò corto, perché il dolore di certi ricordi cominciava a risalire dal torbido nel quale li aveva affogati, "Ora devo andare, ritornerò la settimana prossima".
Ma una telefonata dalla "Villa del silenzio", pochi giorni dopo, anticipò i programmi di Giuditta: il cuore malato dell'anziana madre non aveva retto e un soffio aveva spezzato quella vita sospesa, come un lieve refolo sull'ultimo petalo, staccandolo da una corolla appassita.
Giuditta non versò una lacrima, non riusciva ad aggiungere pianto al suo vaso di dolore: dopo l'improvvisa perdita del suo bambino, quella notte lontana diventata il suo eterno presente, era incapace di piangere, se non per la sua vita spezzata.
Il tempo per lei si era congelato nell'esatto istante in cui un enorme cigno nero, che le era apparso in sogno, le aveva strappato dal grembo il figlio che aveva concepito pochi mesi prima, lasciando tra le lenzuola la scia bruna del suo crudele passaggio.
E non pianse neanche al funerale della madre, celebrato in una cappella dove, attorno alla cassa di mogano, c'erano solo lei, l'officiante e l'infermiera.
Ora la casa della madre doveva essere venduta e i mobili accantonati in un deposito, almeno per il momento. Stava quasi per cedere le chiavi agli uomini del trasloco quando una leggera asimmetria nello spessore di un cassetto dell'armadio attirò il suo sguardo. Si accorse che, in uno spessore anomalo, un doppio fondo, era nascosta una carpetta. Era legata con un nastro rosso, Giuditta sciolse lentamente il nodo. "Deve contenere documenti", pensò, ma al suo interno trovò una seconda busta. La aprì: c'era un cartoncino ingiallito e una lastra di una radiografia di un torace. Ossa piccole: erano quelle di un bambino. Il cartoncino invece recava inciso il suo nome: Giuditta Biamonti. "Forse con quel biglietto i suoi genitori avevano comunicato agli amici e ai parenti lontani l'avvenuta sua nascita", pensava. Ma d'improvviso il suo sguardo scivolò sulla data della lastra: 12 marzo 1960. Lei era nata quattro anni dopo, nel mese di giugno: di chi era allora quella lastra? La
osservò con maggiore attenzione e percepì che quelle piccole ossa non davano affatto l'impressione di essere di un bambino sano. Troppo curve. E si intravedevano le ombre di organi interni costretti in una collocazione che si faceva fatica ad immaginare regolare. "Non doveva avere avuto una vita facile quella creatura", pensò Giuditta. Ma chi era? E perché la mamma ne aveva conservato in un cassetto il ricordo? La ripose nella busta, congelando e sospendendo curiosità e compassione.
Scrutò maglio il contenuto della carpetta: sotto un lembo vi trovò una foto e una cartolina spedita da una città lontana. Erano saluti indirizzati alla madre, inviati nella casa nella quale visse prima di sposarsi. La firma era di Gino. "Allora Gino non era il frutto di una fantasia di una mente scollegata", pensò Giuditta. "Un uomo con questo nome, nella vita della mamma, era esistito davvero".
Nella foto, che aveva orli seghettati come quelli di un grande francobollo, Giuditta riconobbe la sua stanza da bambina e persino i suoi giocattoli. La mamma l'aveva conservata tra i suoi ricordi più cari. Eppure qualcosa non le tornava: la bambina distesa sul letto, sul suo letto, non poteva essere lei. Giuditta ne era certa: aveva visto tante altre volte le foto che la ritraevano da bambina, alta sin da piccola, e con un ciuffo di capelli neri e indomiti. Quell'altra bambina non aveva i suoi capelli e, per di più, stava afflosciata sul suo letto come una bambola rotta. Chi era allora quell'impostore che indossava i suoi abiti e persino la sua camiciola ricamata?
Fu grazie a quel minuscolo particolare che le tornarono alla memoria certe abitudini della madre che la facevano sentire in gabbia sin da bambina: a scegliere per lei i vestiti da indossare era stata sempre lei. E i giochi, anche quelli, li sceglieva lei. "Quel coniglio di stoffa, non si chiama con quel nome stupido che hai detto tu, hai sbagliato", la rimproverava così anche per queste sciocchezze, "si chiama Teddy. Teddy, hai capito?".
Decideva sempre per lei, disegnandole addosso una volontà che non era la sua. E l'eco delle sue parole, dei suoi divieti, delle sue puntuali indicazioni, la accompagnava in ogni circostanza della vita. Si ricordò che una volta, quando già la corteggiava da Alfredo, che qualche tempo dopo l'avrebbe portata all'altare tra le lacrime compiaciute della mamma, le capitò un fatto strano. Era occhi negli occhi col fidanzato perfetto, l'uomo che aveva passato tutti gli esami della famiglia e li aveva superati. A pranzo in un piccolo ristorante di città, una domenica, erano già giunti al dolce. Negli occhi di Alfredo vedeva proiettata la luce di una perfetta vita domestica, e nella sua voce il suono dell'unione ideale, e per questo non si accorse che stava ingoiando una fragola. Il terrore le strinse il cuore e le chiuse lo stomaco: non avrebbe mai dovuto mangiare le fragole, sarebbe morta certamente. Nelle sue orecchie risuonavano le parole della mamma che le intimava: "Attenta, non mangiare le fragole, ti fanno male". Eppure quella volta non successe niente. Anzi ebbe la sensazione che le fragole le piacessero pure, ma la paura di aver fatto un errore glielo fece dimenticare molto presto.
"Ero plagiata" si avventurò a pensare Giuditta. Ma ricacciò indietro questo pensiero che la faceva stare male. Come quando, da piccola qualche volta, aveva osato contraddire la mamma: era stata punita, dileggiata davanti al padre, un uomo schivo e remissivo che Giuditta amava tanto, forse proprio per questo suo carattere che lo rendeva così simile a lei, e ne aveva sentito profonda vergogna. Provò la stessa vergogna adesso, e in cuor suo si scusò con la madre morta da pochi giorni. "Era un amore strano, forse ossessivo, ma pur sempre materno", sentenziò tra sé.
"Signora, portiamo via tutto?", chiesero gli addetti al trasloco. "Si, già, certo. Queste sono le chiavi. Per favore, fate attenzione: sono i mobili di mia mamma".
Anche gli sguardi dei operai della ditta di trasloco le sembravano inquisitori. Le sembrava che anche loro avessero letto, chissà in quale parte del suo viso, l'ombra della sua insubordinazione verso la vecchia madre morta: una colpa che sentiva gravare sulle sue spalle come una montagna di pietre. Era una donna "sbagliata", così si sentiva troppo spesso. "Sbagliata perché aveva fallito il suo matrimonio, sbagliata perché non aveva portato a termine la gravidanza, sbagliata perché non sapeva più piangere se non per sé stessa. Sbagliata perché alla fine anche tutti gli amici l'avevano abbandonata".
Salutò gli operai, ma avrebbe voluto sprofondare in un tombino per non essere vista mentre imboccava la porta dell'uscita. Come un topo che cerca scampo ovunque, pur di sfuggire alle grinfie del gatto.
A casa sua le persiane socchiuse impedivano alla luce di dare forma alla camera e di svelare i contorni degli oggetti che erano sparsi senza un preciso ordine.
Si sedette sul letto sfatto, riaprì la carpetta, prese il cartoncino ingiallito e lesse ancora una volta il suo nome. In calce c'era una scritta che prima non aveva notato. Una data. Giuditta rimase pietrificata: 24 giugno 1960. Ora aveva capito: quella bambina non era lei, ma una sorella morta prima che lei nascesse e che aveva portato il suo nome prima di lei.
Capì che la sua nascita era stata un drammatico tentativo di ristabilire un finto ordine in una vita segnata da una malattia e da un lutto. Lei era stata una "sostituta", una "supplente", e poi anche una "copia perfetta", usata per esorcizzare quello che la madre sentiva come un proprio precedente fallimento, sentenziato dalla morte della prima figlia. Capì che era per questa ragione che a lei era richiesta la perfezione. E capì anche che, essendo cresciuta con queste costanti aspettative, anche lei aveva impostato la propria vita chiedendo sempre il massimo da sé stessa.
Chiuse gli occhi e perdonò la madre che probabilmente aveva perso l'amore di un uomo che mai aveva dimenticato e che, come lei, aveva perso anche un figlio. Un trauma che mai aveva superato, neanche dopo la sua nascita. Realizzò in quel momento che con lei aveva condiviso lo stesso destino, schiave entrambe dell'idea della perfezione. Ma mentre la madre ormai era morta, lei aveva ancora la possibilità di vivere. E finalmente si sentì libera.

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